Ogni tanto mi capita di raccontare bugie. Sono per lo più bugie innocenti, magari per non far preoccupare qualcuno. Dico ad una persona cara che quello che sto per fare non è pericoloso, quando invece potrebbe esserlo. Oppure dico ad un escursionista che la salita che stiamo percorrendo sta per terminare, quando invece potrebbe durare ancora.
Per dire bugie più grosse bisogna impegnarsi di più, come fece Giuseppe Vella, la cui storia mi affascinò e che vorrei brevemente raccontare a beneficio di chi eventualmente non la conoscesse.
Nato a Malta nel 1749, si trasferì a Palermo, dove divenne cappellano nel monastero di San Martino delle Scale.
Una sera di dicembre 1782 una terribile tempesta fece naufragare una nave davanti alle coste siciliane, ma uno dei passeggeri, che poi si rivelò essere l’ambasciatore del Marocco, riuscì a raggiungere incolume la riva. Le autorità si resero presto conto che nessuno era in grado di comunicare con il prestigioso naufrago, il quale parlava soltanto arabo, e se è vero che gli arabi per un paio di secoli avevano dominato l’isola, era ormai trascorso molto tempo da allora, e nessuno ricordava più la loro lingua.
Nessuno tranne, forse, l’abate Vella.
Oddio, bene bene l’arabo non lo sapeva parlare. A dirla tutta, conosceva sì e no qualche parola, anche per le sue origini maltesi, ma niente di più.
Giuseppe Vella decise di raccontare una bugia, e si fece avanti per comunicare con l’illustre ospite, pensando che ne avrebbe potuto trarre qualche vantaggio.
Un giorno, durante la sosta forzata dell’ambasciatore, in attesa della riparazione della sua nave, gli venne mostrato un prezioso libro antico, il cui contenuto, essendo scritto in arabo, nessuno conosceva.
L’ambasciatore lo esaminò, lo commentò, e l’abate Vella tradusse le sue parole, a beneficio dei presenti. Ma mentre il primo spiegò che si trattava di una delle tante biografie di Maometto, senza particolare valore, il secondo riferì che si trattava di preziosissimi codici relativi alla storia di Sicilia, rendendosi disponibile alla loro decifrazione.
La cosa suscitò entusiasmo e quando l’ambasciatore dopo pochi giorni lasciò la Sicilia per tornare in Marocco, la fama e gli onori dell’abate Vella aumentarono a dismisura, non solo sull’isola, ma anche in Europa.
Fama, onori, ma anche denaro. Gli venne conferita una cattedra universitaria, e lui non pago di aver tradotto falsamente un primo manoscritto, si accinse a tradurne anche altri, sempre in maniera fantasiosa.
Le bugie hanno le gambe corte, e anche quelle dell’abate Vella seguirono questa regola. Qualcuno cominciò a dubitare dell’esattezza di quelle traduzioni, perché alcuni elementi non tornavano, e fra i vari critici ce ne fu uno particolarmente accanito, che si chiamava Rosario Gregorio, uno storico italiano del periodo. Non vi dico le polemiche, le lettere di accusa, quelle di difesa, il dividersi – come spesso accade – tra innocentisti e colpevolisti!
Insomma, alla fine la spuntò Rosario Gregorio, che dimostrò senza ombra di dubbio che Giuseppe Vella si era inventato tutto di sana pianta.
Questi venne arrestato nel 1796 e condannato a quindici anni di reclusione, da scontare nel castello di Palermo. Ne fece pochi, perché gli furono poi concessi gli arresti domiciliari in una località non lontana dalla città, dove morì intorno al 1815.
Le sue bugie però non furono completamente inutili, perché grazie anche a tutta questa vicenda, ci si rese conto che in Sicilia occorrevano studi di arabistica, che iniziarono da allora.
Giuseppe Vella non incontrò mai il suo accusatore, in vita.
Ma se vi capita di andare a visitare il bel centro storico di Palermo, date un’occhiata alla chiesa dedicata ai santi Matteo e Mattia apostoli. Al suo interno vi sono due lapidi, che ricordano entrambi. Rosario Gregorio vi fu sepolto, l’abate Vella solo ricordato, dai suoi nipoti. Non si erano potuti sopportare in vita, ma sarebbero stati sempre vicini simbolicamente.
Solo recentemente qualcuno ha avanzato dubbi sul fatto che una delle due lapidi faccia riferimento proprio a quel Giuseppe Vella, sostenendo si tratti piuttosto di un suo omonimo.
Una bugia, insomma.
Nell’immagine, “La nona onda”, Ivan Konstantinovič Ajvazovskij, 1850, Museo di Stato Russo di San Pietroburgo.