Aver paura

Forse mi esortava a non avere paura.

Ogni volta che torno a casa dei miei, non posso fare a meno di rovistare nel cassetto delle fotografie.
Quando lo apro, si sente forte quell’odore di celluloide dei negativi, che sa di passato lontano.

Prendo un pacchetto a caso, e lo guardo. Non mi ricordo quasi nulla, ogni foto è una sorpresa.
Vacanze al mare, su in Toscana; vacanze in campagna, giù in Umbria. Un su e giù che per tutta la vita non ho smesso di fare.
Rari viaggi di famiglia modesta, volti sorridenti e talvolta imbronciati di cugini e di zii. Facce che potrebbero essere degli uni o degli altri, tanto si somigliano.
Cugini che sono diventati zii, e magari anche nonni a loro volta.

Chissà che giorno era, forse ’71, probabilmente una domenica, sicuramente d’estate.
Se fosse ancora vivo gli direi mi dispiace, ma non ci sei riuscito, io ho paura di tutto.

La scienza e la tecnica vanno avanti

La scienza e la tecnica vanno avanti, è nella natura delle cose, e quindi anche in Alabama c’è grande fermento per questo nuovo metodo di condanna a morte, che sarà provato credo domani.

Il fatto è che il condannato già in passato era stato sottoposto alla pena capitale, ma nonostante gli avessero infilato gli aghi dappertutto, non c’è stato verso di iniettargli la sostanza, pare che lui non fosse collaborativo, pensa te che maleducazione. Adesso gli applicheranno una maschera particolare con la quale gli faranno respirare un po’ di azoto, fino ad ucciderlo. Questo in teoria, perché poi non si sa mai come vanno le cose, uno inizia in un modo e finisce in un altro, magari si rompe la maschera e muoiono anche tutti quelli intorno.

Gran brutto mestiere quello del boia, c’era un tempo in cui la riprovazione generale nei confronti di questi assassini di stato era talmente forte che anche i panettieri mostravano il loro sdegno mettendogli il pane al rovescio sul bancone. Erano dovute intervenire le autorità con un provvedimento legislativo, perché questa intolleranza nei confronti dei boia doveva essere interrotta il prima possibile, mica si poteva correre il rischio che nessuno volesse più fare quel mestiere.

La legge era piuttosto scarna ma chiara anche nella sua brevità: “Chi non accetta il boia come cliente diventa cliente del boia” e i panettieri per continuare a mostrare sdegno senza incorrere nei rischi che questo comportava inventarono il pancarré, che aveva la stessa forma sopra e sotto e quindi non si poteva capire più se veniva somministrato con spregio oppure no.

La pena di morte è una delle cose più miserabili che siano state inventate dall’uomo, l’uccisione a sangue freddo di una persona fa parte di quelle cose orrende che la nostra intelligenza riesce a partorire, e ci sono molti appassionati del genere pure adesso, pure tra i nostri vicini di casa o tra i genitori degli amichetti dei nostri figli, che magari festeggiano i compleanni dei loro pargoli con tartine di pancarré.

Guida Ambientale Escursionistica

D’accordo scrivere biografie, ma poi la domenica che si fa? Escursioni! Dal 2016 sono anche Guida Ambientale Escursionistica, e sono tra i promotori del Cammino di Germanico, un anello di 75 km circa che si sviluppa attorno all’antica città di Amelia e che raggiunge via via tutte le sette splendide frazioni che la circondano. Mi piace accompagnare le persone lungo questo percorso, raccontando le infinite storie (ah le storie!) che lo riguardano.

2024

Credo sia la parola dell’anno 2023, non ce la siamo mai fatta mancare in ogni ambito, anche se pure “povertà” non è stata da meno. A pensarci bene, anche l’anno precedente è andata così, e sono sicuro che pure il successivo sarà caratterizzato da entrambe.

Il fatto è che l’umanità non riesce a provare vergogna per le sue azioni, siamo probabilmente la specie peggiore mai apparsa sulla terra, combiniamo guai a non finire, mentre corriamo veloci verso l’estinzione. Litigando, s’intende.

Con queste premesse, pare fuori luogo augurare un buon 2024 a tutte le persone che passano di qui, ma lo faccio lo stesso, con un pensiero speciale a tutte quelle che combattono battaglie – quelle sì legittime – per la propria salute, alle quali mando un affettuoso, positivo e fortissimo abbraccio.

Non è da tutti

Forse fu un’idea di Blasio de Arboribus, o forse di Niccolò Carcavilla, o forse ancora di Niccolò Sorbolo, non si è mai saputo, o forse di tutti e tre insieme, che erano matti e visionari mica poco, con quella proposta di spostare le navi per strada. E che strada, che nemmeno c’era, si sarebbe dovuta costruire pure quella!
Il fatto è che Venezia nel Quattrocento era in guerra con Milano, e poiché il lago di Garda era terreno di battaglia, sarebbe stato comodo per Venezia disporre di navi per poter combattere anche lì.

Ma le navi erano nell’Adriatico, mica nel lago, e anche se qualcuno avesse provato a risalire l’Adige per avvicinarsi, poi ci sarebbero stati chilometri e chilometri di montagne da superare!

Eppure tante imprese impossibili sono tali finché qualcuno non decide di realizzarle.

Furono inventati macchinari, furono impiegati centinaia di uomini, fra sterratori, falegnami, carpentieri, operai, marinai e gente del posto, che se c’è da spostare una nave che fai, non dai una mano? Furono impiegati anche decine e decine di buoi per tirarle in salita e poi con le funi tutti a reggerle che in discesa se avessero preso il via altroché lago di Garda, c’era il rischio che finissero nel mar Tirreno.

Mesi e mesi di lavoro, larghe tavole di legno sulle quali i rulli con le navi sopra si potevano spostare più facilmente, e se si incontrava una casa sul percorso la si buttava giù, perché ogni deviazione sarebbe stata complicata, meglio seguire il percorso più breve. Anche il vento fu utilizzato, che se è contrario riesce a frenare le navi in discesa, bastava pensarci.

Nell’aprile del 1439 l’incredibile convoglio di navi trasportate per strada raggiungeva il lago di Garda e calate in acqua, erano pronte per la battaglia. Ma questa sarebbe stata compito di soldati e marinai, che quelli che le avevano spostate andarono piuttosto all’osteria a raccontare di cosa erano stati capaci, non è da tutti portare le navi in giro per le montagne.

Si chiamavano Centoporte

Si chiamavano Centoporte, perché ogni scompartimento aveva il suo ingresso separato. Le panche erano di legno, e l’atmosfera ricordava vagamente il vecchio west, ogni volta che passavamo in mezzo alla pineta di San Rossore ci aspettavamo un assalto degli indiani. Noi eravamo tutti pendolari, la maggior parte andava a Pisa all’università, qualcuno già lavorava e scendeva prima.

Io salivo a Massa, il tragitto non era lungo, una quarantina di km, ma non credo si arrivasse mai a cento all’ora, e ci voleva un po’, sia per le fermate continue, sia perché era veramente un trabiccolo, l’alta velocità esisteva solo nelle menti dei progettisti.

Si narra che una volta degli sventurati sulla linea che invece veniva da Lucca, a bordo di una littorina diesel, fossero stati costretti a scendere e a spingerla perché si era fermata, chissà se qualcuno si ricorda quell’episodio.

Centinaia di persone assonnate a bordo, centinaia di storie diverse, la giornata davanti a noi che era tutta da giocare, gli zainetti pieni di sogni, la persona che ci piaceva che saliva alla fermata successiva, l’odore di malizia profumo d’intesa o di dopobarba mennen, sembrava tutto più bello di ora, ma non è così, eravamo solo più giovani, erano gli anni Ottanta, sembra ieri.

Non so chi sia la persona più ricca del mondo

Non so chi sia la persona più ricca del mondo adesso, forse Musk, o Gates, o Bezos, chissà, ma so chi lo fu tanto tempo fa, si chiamava Mansa Musa, imperatore del Mali a partire dal 1312.

Alcuni studiosi hanno stimato che il suo patrimonio, rapportato alle cifre attuali, oscillasse fra i quattrocento e gli ottocento miliardi di dollari.

Si racconta che in occasione di un pellegrinaggio alla Mecca, poiché non amava molto la solitudine, si fece accompagnare da sessantamila persone e dato che c’era anche da dodicimila schiavi il cui compito era quello di portare ciascuno sulla testa un paio di kg d’oro, hai visto mai che hai bisogno di comprare qualcosa in viaggio.

Era anche generoso, se lo poteva permettere certo, ma a volte i ricchi sono pure un po’ taccagni, ma lui no, durante questo pellegrinaggio, che durò un paio d’anni, regalò enormi quantità di oro ad ogni povero che incontrò sul suo cammino, e ogni venerdì, fece costruire una moschea.

Portò così tanto oro che all’Egitto regalò una dozzina d’anni di inflazione.

Il figlio fu un dissoluto e cominciò a sperperare, senza tuttavia cadere in povertà; chissà cosa faranno invece i rampolli di Musk, Gates, Bezos, ma un minimo di spalle coperte dovrebbero avercele pure loro, in caso contrario un aiuto non si nega a nessuno, fatecelo sapere.

La pagina bianca, per iniziare a raccontare la storia di una vita

Tante ore trascorse ad ascoltare e a prendere appunti.
Le domande per capire meglio, il piacere di conversare.
Le centinaia di pagine di trascrizioni, fatte a mano, perché riascoltare i dialoghi ti fa scoprire cose che al momento ti erano sfuggite.
L’elenco degli episodi, le cose che ti hanno colpito di più, quelle che la persona vuole che ci siano.
I personaggi che diventano familiari.
La pagina bianca, per iniziare a raccontare la storia di una vita.
Le dita che cominciano a battere veloci sulla tastiera, ed è tutto un fluire di emozioni.
Il mestiere di biografo, da quasi trent’anni.

Ci proviamo?

Ti ricordi cosa ti dissi qualche anno fa? Tutto quello che avremmo dovuto fare insieme, dove saremmo dovuti arrivare? E la gente che diceva “ti abbandonerà prima”, “la lascerai per un’altra”.
Ci proviamo per i quattrocentomila?
Panda 4×4.

Passo dopo passo

Stringere i lacci degli scarponi, indossare lo zaino, cercare di pensare a tutto quello che ci dovevamo portare, che tanto poi qualcosa si dimentica sempre, e poi passo dopo passo cominciare a camminare.
Percorrere il Cammino di Germanico, un itinerario ad anello che collega la città di Amelia con le sue sette frazioni, vuol dire anche camminare sul cibo, o meglio accanto al cibo, perché il cibo non lo si calpesta, lo si sfiora con i nostri passi leggeri.
In città si guardano le case, le pietre, i monumenti, ma poi presto ci si infila nella natura, e lo spettacolo cambia.
Di cibo, da queste parti, ce n’è dappertutto. Quando i campi prendono il posto dei boschi, e la montagna degrada dolcemente in collina o pianura, è facile osservare distese di cereali, che a seconda della stagione assumono un aspetto diverso.
Orzo, farro, avena, e poi il grano, che all’inizio dell’estate assume un colore giallo pallido, poco prima della mietitura, con le sue spighe che si muovono all’unisono quando colpite dal vento, e disegnano onde fantastiche.
Dopo qualche tempo, la fatica si sente meno, che il corpo umano è un po’ come una macchina che si deve scaldare, prima di funzionare al meglio. Le gambe si muovono da sole, camminare è una pratica antica, l’uomo è stato prima di tutto nomade, e lo era proprio per cercare il cibo.
Talvolta, al posto dei cereali, ci sono i legumi, come le antiche cicerchie, che qualcuno ancora ricorda, oppure i ceci, che crescono bene anche in terreni poveri. E poi lei, la fava cottora, che qui è regina e ha trovato un posto d’onore.
La meta della giornata spesso appare d’improvviso, dopo una curva, uscendo dalla radura, in cima alla salita. Si riconosce un centro storico, si vede un comignolo che fuma, oppure si sente l’odore di una minestra sul fuoco. Le voci delle persone, il sentiero che diventa strada.
Quando ci si avvicina ai paesi, appaiono gli orti, più comodi, talvolta recintati per evitare che gli animali selvatici li possano rovinare. Anche lì un tripudio di colori, a seconda delle stagioni, dove capita spesso di vedere anziani chini, intenti a curare con le mani rugose la piccola insalata che spunta dal terreno.
Gli occhi si guardano attorno, chissà dov’è il posto dove andremo a dormire, una voce ci chiama, una signora che ci invita a prendere un caffè, che un tempo questo paese, era pieno di gente, ma adesso sono andati tutti via, e vedere facce nuove è sempre una festa.
Il cibo non sta solo per terra, svetta anche in cielo, sugli alberi da frutta che offrono riparo dal sole al camminatore, e che sono adorni di doni dolci e preziosi. La frutta antica, così si chiama, recuperata da un passato dove pesticidi non esistevano, magari meno bella di quella moderna, ma certo più sana e sicura.
Quanti ricordi la tappa di oggi, e già si pensa a quella di domani, con un occhio al cielo per capire se pioverà o se ci sarà il sole, ma tanto che importa, si va lo stesso.

Fu una lettura estiva

Fu una lettura estiva, di quelle che dovrebbero essere spensierate, e che invece si sarebbe rivelata come un cazzotto nello stomaco.

Erano i primi anni Ottanta, l’adolescenza un po’ così, ma tutti sembravano contenti ed io cercavo di adeguarmi, i pomeriggi trascorsi nella biblioteca di Carrara, dove i libri avevano un buon odore che non avrei mai più dimenticato.

La dittatura in Grecia era terminata da un pezzo, e la vita straordinaria di Alexandros Panagulis pure, quando venne pubblicato “Un uomo” di Oriana Fallaci. Lei aveva promesso a lui che quella vita l’avrebbe raccontata, e quanto dolore in quella vita, quanta sofferenza, quanto eroismo.

Le torture di ogni genere, fisiche e mentali, che anziché sortire l’effetto sperato, sembravano solo accrescere l’incredibile forza d’animo di quest’uomo che con ogni mezzo aveva cercato e cercava di opporsi alla dittatura dei colonnelli.

Anche con il tirannicidio, che reputava legittimo in una situazione del genere. Era proprio il 13 agosto del ’68, il giorno del fallito attentato contro il dittatore, la bomba che non esplode al passaggio dell’auto, e Panagulis – che aveva orchestrato l’agguato – finisce in galera dove gliene fanno di tutti i colori e il libro di Fallaci non tralascia nulla di quel lungo orrore.

Sono gli anni Venti del duemila, quelli dell’età adulta un po’ così, di gente contenta in giro non ne vedo più tantissima, ma è di nuovo estate, e io quasi quasi lo rileggo.

Compleanno e mezzo

Buon compleanno e mezzo a me e a tutti quelli nati il 4 febbraio.

L’idea di festeggiare il compleanno e mezzo venne all’abate Villeret nel Settecento. Egli si accorse che i bambini ospiti nell’orfanotrofio di Corgémont, nati d’inverno, non potendo festeggiare la ricorrenza all’aperto come quelli nati d’estate, mostravano via via tendenze depressive al crescere dell’età.

Allora decise che anche i primi avrebbero festeggiato il compleanno nella bella stagione, usando l’accorgimento di aggiungere sei mesi alla data di nascita. In poco tempo notò che l’umore dei nati d’inverno, ma festeggiati d’estate, migliorò tantissimo, ma suo malgrado dovette anche notare che quelli nati per davvero d’estate mal sopportavano dal punto di vista psicologico la presenza, magari nello stesso giorno, di un festeggiato vero (loro) e di uno per così dire falso (quelli dei sei mesi dopo), sviluppando negli anni un rancore che poi sarebbe esploso in tendenze omicide, fino all’episodio passato alla storia come il Massacro delle Candeline.

La notte del 23 agosto 1782 infatti quelli che compivano gli anni d’estate assalirono i loro colleghi nati d’inverno a colpi di candeline (allora si usavano ceri di ampie dimensioni) trucidandoli quasi tutti. Lo stesso abate Villeret dovette fuggire e si salvò per miracolo, rifugiandosi a Parigi dove terminò i suoi giorni scrivendo un libro dal titolo “Del perché bisognerebbe festeggiare i compleanni solo d’estate e quali accorgimenti prendere affinché non emergano contrasti”, di cui ben presto si persero le tracce.

Grazie a Tom Deschamps per la foto, forse stavo pensando a questa stupidaggine inventata di sana pianta.

Ma che ne sapevo io

Ma che ne sapevo io che con tutta quella gente, tutto quel materiale, tutta quella salita, la locomotiva non ce l’avrebbe fatta, e che c’entro io se settecento persone erano salite in un treno merci pagando il biglietto, e chi glielo aveva fatto il biglietto, mica io, io dovevo solo condurre il treno, e il mio collega doveva solo buttare il carbone e lo buttava eccome, ma il treno si stava fermando proprio dentro alla galleria, mettine altro gli dicevo, ma più di così non si poteva, e anzi dopo che ci siamo fermati, che la salita era troppo ripida, il treno troppo pesante, abbiamo cominciato a retrocedere, e la locomotiva attaccata dietro alla mia – ed era un caso che ci fosse una seconda locomotiva, di solito era una sola – la locomotiva attaccata dietro alla mia dicevo, una volta che ha visto che stavamo tornando indietro, dai si mette a spingere ancora più forte in avanti, e quindi noi che vogliamo andare indietro per uscire dalla galleria, lei che spinge per andare avanti, e nemmeno ci vedevamo fra noi conduttori, che io ero su una locomotiva austriaca, stavo da una parte, e l’altro stava su una locomotiva italiana, stava dall’altro lato, e come se non bastasse ci si è messo anche il frenatore del carro di coda, che dato che c’era tira il freno, insomma è stato un disastro, siamo fermi in questa galleria, il carbone brucia, tutto quel fumo nero, il monossido di carbonio si sprigiona, io mi sento svenire, e forse sarà meglio, che non saprò mai che nel più grave incidente ferroviario mai capitato in Italia, più di cinquecento persone moriranno asfissiate, oggi è il 3 marzo del ’44 e a Potenza non ci arriveremo mai vivi, me compreso, cara mamma.

Strada provinciale 86

C’è una strada deliziosa che percorro spesso, ed ogni volta mi incanta per la sua bellezza. Dal luogo dove abito – Porchiano del Monte – scende dolcemente fino al Tevere e da lì è un attimo, si entra in autostrada o si sale su un treno, e si cambia improvvisamente condizione. Lassù la quiete del bosco e della campagna, laggiù la frenesia dei collegamenti veloci per raggiungere mete lontane. Un vento che tiene l’aria pulita in alto, la nebbia che troppo spesso accompagna le giornate di chi vive là in basso.

È una strada da percorrere lentamente, curva dopo curva, che all’improvviso ti può apparire un capriolo che fugge elegante, o più spesso una famiglia di cinghiali che scorrazza di qua e di là, o ancora gli istrici e i tassi che trotterellano con il loro incedere quasi buffo.

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Polmonite

L’influenza o qualcosa del genere di cui mi lamentavo un mese fa, si è poi rivelata una insidiosa polmonite, ma oggi, dopo un giorno al pronto soccorso, due radiografie, tre prelievi del sangue, quattro antibiotici diversi e trenta giorni di febbre, pare completamente rientrata.

Vorrei ringraziare tutte le persone che indirettamente o direttamente hanno chiesto di me e mi hanno incoraggiato con telefonate, messaggi, visite e fornito supporto di ogni tipo. Anche quelle che sono passate per portare Lara a fare “un giro delle mura”, sono state un aiuto prezioso.

L’affetto è una delle medicine più potenti che abbiamo a disposizione.

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Ogni tanto

Ogni tanto vorrei essere qualcun altro, da qualche altra parte, in qualche altro tempo, e mi diverto ad immaginare come sarebbe il Marcello se si trovasse in vite altrui.

Non vado mai da solo in queste fantasie, ma porto con me anche amici e conoscenti, cercando di adattare ognuno di loro a questo o quel personaggio, o buttandoci tutti dentro ad una categoria senza stare troppo a vedere chi è questo e chi è quello.

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Perizia ed umanità, gentilezza e sorrisi

“Attento ai gomiti, quando passi di lì, che se no si rompe pure quelli”, dice l’operatrice più esperta al ragazzo che sta accompagnando una persona anziana – stesa sul lettino – verso la sala operatoria, mentre la fa passare da una porta. “Sì, sì, ci sto attento”, risponde lui, e prosegue veloce lungo il corridoio con il suo carico di sofferenza.

Il giovane medico che somiglia ad Alessandro Gassman procede spedito verso la macchinetta del caffè, inserisce la sua scheda, e gentile subito si fa da parte, invitando con la mano i praticanti a scegliere quello che vogliono. Pochi istanti con un bicchierino caldo tra le mani, in attesa del paziente successivo, due chiacchiere in libertà, e il suo sguardo furtivo che segue l’infermiera bella che passa accanto, chissà come si chiama.

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