Il naufragio della Querina

Era piena di ogni ben di Dio, la caracca. Questa non era ancora un vero e proprio galeone, ma ne rappresentava una sorta di prototipo, il meglio dell’epoca – siamo nel Quattrocento – per navigare lontano.

E lontano doveva andare, Pietro Querini, il proprietario e comandante. Da Creta, dove i suoi meravigliosi vigneti producevano una malvasia raffinatissima, fino alle Fiandre, nell’odierno Belgio, dove tutti quei barili sarebbero stati facilmente commercializzati. E insieme a loro, un tesoro fatto di spezie, allume di rocca, cera, cotone… Una nave ricca.

Con un equipaggio di una settantina di marinai esperti, di varie nazionalità, la Querina – così si chiamava la nave – salpò in tarda primavera del 1431 e lentamente, percorse tutto il Mediterraneo da est verso ovest.

Quasi alla fine dell’estate, ormai nell’Atlantico, all’altezza di Cabo Fisterra, nel nord della Spagna, là dove il Cammino di Santiago termina, una serie di tempeste eccezionali la investirono con violenza, fino a farle perdere la rotta.

Settimane e settimane di venti e onde altissime provocarono danni enormi alla Querina, la portarono ad ovest dell’Irlanda, ben lontano dal percorso originale, gettando nel panico il suo equipaggio. Si ruppero prima il timone, poi l’albero, e alla fine fu presa la dolorosa decisione di abbandonarla.

Sulla prima delle due scialuppe disponibili, che aveva il curioso nome di “schifo”, ma solo perché derivava dal tedesco “schiff” (nave), salirono in diciotto, mentre i restanti quarantasette furono ospitati a bordo di una lancia più grande.

Dei primi non si seppe più nulla.

I secondi andarono alla deriva per giorni e giorni, fra stenti, malori, e morti continue. Una decimazione. Fino a quando una mattina, i pochi superstiti, compreso Pietro Querini, non riuscirono a sbarcare su una piccola isola deserta. Si chiamava Sandoy, vicino all’isola di Rost, nelle Lofoten.

Da Creta alle Lofoten. Norvegia. Circolo Polare Artico.

Era il 14 gennaio, come oggi, ma del 1432.

Furono giorni appena meno terribili di quelli trascorsi in mare. Dentro capanne improvvisate, fuori un freddo terribile, al calore tossico di un fuoco in cui bruciava legno coperto di pece, quel che rimaneva della scialuppa.

Fino a quando un giorno benedetto alcuni pescatori, da Rost, sbarcarono a Sandoy, e li trovarono. Iniziò così per i marinai veneziani un lento, e fantastico ritorno alla normalità. Ospiti di queste persone generose, che li accolsero nelle loro case, li rifocillarono, li accudirono in tutti i modi, ritrovarono le forze e dopo qualche mese iniziarono un lunghissimo viaggio in nave, a cavallo, a piedi, per tornare a casa, dove giunsero a metà ottobre di quell’anno.

Nei diari che Pietro Querini scrisse per narrare questa incredibile avventura, molte pagine furono dedicate alla descrizione di questa popolazione così ospitale, che viveva in una condizione di gentilezza e socialità reciproche.

Il legame tra Rost e Venezia, da allora, non si sciolse più, anche in nome della principale fonte di sussistenza dei pescatori di lassù, il merluzzo, che essiccato fino a diventare stoccafisso, sarebbe diventato un prodotto molto apprezzato in tutto il Veneto, grazie al racconto di Querini.

Altri tempi, altra sussistenza, oggi per fortuna se ne può fare a meno e lasciare in pace i merluzzi, sapete come la penso, ma questa è un’altra storia.

Ancora oggi questo legame non si è spezzato, nell’isola di Sandoy in occasione dei cinquecento anni dal naufragio è stato posto un cippo che ricorda l’evento, mentre in quella di Rost è stato creato un parco letterario dedicato al comandante.

Un luogo da visitare, dove non è difficile osservare l’aurora boreale e dove si può vedere il sole a mezzanotte. Magari sorseggiando malvasia, chissà se si trova in qualche negozio lassù.